top of page

Lavorare per vivere: alternative al RdC

Il Reddito di Cittadinanza, misura entrata in vigore nel nostro ordinamento con il D.L. 3/2019, è tornata al centro del dibattito politico. Da più parti si chiede la sua completa eliminazione, o almeno una sua profonda revisione. Anche il M5S, che ha fatto del reddito da bandiera elettorale specie nel Sud Italia, sembra essersi rassegnato ed accetta una revisione dello strumento anche se non si capisce in che direzione. Il motivo di tanto astio da più parti politiche e sociali, va ricercato nel fatto che il RdC è accusato di essere uno strumento costoso ed inutile, che incentiva le persone a non darsi da fare per trovare un nuovo impiego e che droga il mercato del lavoro, con molte imprese che non riescono più a trovare lavoratori specie per i lavori più “umili” come per esempio camerieri, elettricisti, agricoltori ecc.


Guardiamo i dati che ci fornisce direttamente l’ente erogatore del Reddito di Cittadinanza, cioè l’INPS. Ad Agosto 2021 erano infatti 1.224.862 i nuclei famigliari beneficiari del RdC coinvolgendo ben 2.875.332 persone, praticamente come la Città di Roma e ben quasi il 5% della popolazione nazionale. In pratica nel nostro Paese, 1 persona su 20 è in qualche modo beneficiario della misura in questione, con tassi più alti nelle regioni meridionali. L’importo medio dell’assegno è di € 576,25 e la spesa per lo stato è di 700 milioni di euro mensili e fino ad agosto l’Erario ha dovuto sborsare ben 5 miliardi e mezzo di euro e a questi ritmi non è escluso che per il 2021 il Reddito possa costare, alle casse dello Stato, più di 8 miliardi di euro. Più della metà dei beneficiari del Reddito di Cittadinanza sono residenti nelle regioni meridionali, con Campania e Sicilia, ma anche nella ricca Lombardia i percettori dello stesso sono ben 302.000 persone. Sul fronte dei contratti di lavoro creati con il RdC, i risultati sono alquanto carenti, secondo un report della Corte dei Conti risalente al febbraio 2021, solo 152.673 persone hanno trovato un lavoro dopo aver percepito la misura e quasi un terzo dei beneficiari non ha nemmeno sottoscritto il patto per il Lavoro con un Centro per l’impiego.


Quando venne approvato il Reddito di Cittadinanza, dall’allora Governo Conte I, gli scopi che si volevano ottenere erano essenzialmente duplici: da un lato si voleva combattere la povertà, dall’altro si voleva avere un’efficace strumento di politica attiva del lavoro. Si può discutere se si effettivamente stata “sconfitta la povertà” (come aveva dichiarato l’allora ministro al welfare Di Maio), ma sicuramente il Reddito di Cittadinanza è un grosso buco nell’acqua per quanto riguarda le politiche attive del lavoro.


Che fare allora? abolirlo? Riformarlo profondamente?

Si deve avere il coraggio di dire che lo si deve abolire, ma a patto che a monte ci sia un forte ragionamento sulle cause del problema e non solo sui sintomi. Il RdC è un disincentivo a cercare lavoro, verissimo, ma questo porta alla conclusione che il mercato del lavoro, specie ad un giovane, offre mansioni per importi inferiori a 576,25 euro mensili o comunque poco inferiore, e in molti casi con contratti a termine senza alcuna prospettiva per trasformare il rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Perché mai un percettore del Reddito, dovrebbe accettare un lavoro da 600 euro al mese, magari a chiamata, magari solo per pochi mesi e con nessuna garanzia che quel rapporto possa continuare oltre al termine prestabilito? Sia chiaro, non si vuole colpevolizzare gli imprenditori o negare che ci siano dei completi fannulloni o furboni che approfittano del reddito per vivere di espedienti; ma è altrettanto chiaro che esiste un sistema che non funziona, che da tempo si è inceppato e che non si riesce più a risalire alle cause dei problemi.


Cosa fare allora?

Sicuramente si deve trasformare il reddito in uno sgravio contributivo per le imprese che assumono disoccupati o giovani secondo alcune direttive:


1) Innanzitutto lo sgravio dovrebbe riguardare chi assume un lavoratore a tempo indeterminato, favorendo così l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili, combattendo il precariato, che, specie nei giovani, impedisce una pianificazione a lungo termine della propria vita, come ad esempio farsi una famiglia, una casa, ecc.

2) Vanno incentivati i contratti di apprendistato al posto dei vari contratti a termine per i giovani in modo che essi possano essere messi seriamente alla prova ed imparare per l’impiego, senza però non avere nessuna possibilità per stabilizzare il rapporto di lavoro.

3) Una parte dello sgravio contributivo deve andare nella busta paga del lavoratore per avere paghe più decenti e che consentano di avere una vita dignitosa per sé e per la famiglia.

Si potrebbe pensare di rafforzare gli strumenti in mano agli enti locali, che veramente possono conoscere le esigenze del territorio ed aiutare chi veramente non ce la fa e “mazziare” i furbi.


Si potrebbe pensare anche ad introdurre un salario minimo orario per alzare le paghe dei lavoratori, questo naturalmente dopo un taglio del cuneo fiscale in carico ai datori di lavoro. Infine occorre veramente riformare i Centri per l’Impiego affinché diano veramente una formazione completa per chi cerca lavoro. La battaglia forte è quella di affermare che solo il lavoro crea ricchezza e produzione, ma il lavoro deve essere dignitoso e si deve ricordare, quando si pensano a delle politiche pubbliche, che l’Uomo non deve vivere per lavorare, ma deve lavorare per vivere. Un concetto semplice tramandato dai nostri nonni, ma che nella società odierna sembra essere completamente dimenticato e passato in secondo piano.


Il PNRR sta mettendo sul piatto ingenti risorse per far ripartire il Paese dopo la Pandemia, sia l’occasione per ripartire con un mondo del lavoro più giusto, che richieda impegno ai cittadini, specie ai giovani, ma che poi sappia ricambiare e ripagare adeguatamente.

bottom of page