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Francesco Santini

Speciale 22 Ottobre - Autonomia: è ora!

Sono ormai passati quattro anni dal referendum consultivo sull’autonomia della nostra Regione, ma, nonostante la schiacciante vittoria del «» (96%), la trattativa con lo Stato centrale - che si

riconferma leviatanico e illiberale - è in stallo. «Con il consenso della gente si può fare di tutto»

diceva Gianfranco Miglio, rimasto inascoltato dai burocrati levantini e dalla classe dirigente

romanocentrica. Il profluvio di parole sul sistema italico non è mai sufficiente, ma l’obiettivo di

oggi è un altro: comprendere che cosa si intende per autonomia. Innanzitutto, ponendosi sul piano delle fonti, l’autonomia è riconosciuta dalla Costituzione, più precisamente dal terzo comma dell’articolo 116, che prevede la cessione di alcune competenze statali alle regioni che avviano l’iter di contrattazione. Il terzo comma dell’articolo 116 non era presente nel nucleo originario della Costituzione e venne introdotto solamente nel 2001, con una legge costituzionale (3/2001) di riforma del Titolo V propugnata dalle forze di centrosinistra. Sebbene l’Assemblea Costituente avesse previsto uno Stato decentrato che, nei margini dell’unità, doveva riconoscere e promuovere le autonomie locali, la storia italiana è caratterizzata dal centralismo: basti pensare che le Regioni ordinarie entrarono concretamente in vigore nel 1970, mentre il Presidente della Giunta fu eletto direttamente a partire dal 1999 (con la legge costituzionale numero 1 di quell’anno).


Dopo aver brevemente trattato la questione sul piano formale, è necessario spostarsi sul piano

sostanziale: in parole povere, rispondere alla domanda «che cosa cambierebbe se la Lombardia

fosse autonoma?». La gestione delle competenze esplicitate nell’articolo 116 e delle relative risorse passerebbe dallo Stato centrale alla Regione, che, stando alle agenzie di rating, sarebbe in grado di amministrarle meglio. Che la Lombardia fosse virtuosa è noto, chiaro ed evidente: il dato più eclatante riguarda il residuo fiscale - ovvero la differenza fra le entrate prelevate dallo Stato in un determinato territorio e le spese ricevute sotto forma di servizi - che ogni anno supera i 50 miliardi di euro. Inoltre, la crisi dello Stato moderno ha evidenziato la necessità di avvicinare il potere ai governati, o, quantomeno, di ridurre la distanza dai governanti, sempre più lontani e meno attenti alle istanze provenienti dalle comunità locali: per citare una famosa frase di Carlo Cattaneo, «un parlamento adunato in Londra non farà mai contenta l'America; un parlamento adunato in Parigi non farà mai contenta Ginevra; le leggi, discusse in Napoli non risusciteranno mai la giacente Sicilia, né una maggioranza piemontese si crederà in debito mai di pensar notte e giorno a trasformar la Sardegna, o potrà rendere tollerabili tutti i suoi provvedimenti in Venezia o

in Milano».


Infine, per concludere, è opportuno aprire una riflessione sul futuro del rapporto fra Stato e Regioni: la richiesta di decentramento, legittimata mediante istituto referendario, deve essere il motore propulsore per ripensare da un punto di vista federale il Titolo V. E’ necessario attuare una «rivoluzione copernicana», adottare una nuova prospettiva che parta dal basso, dalla vivacità pluralistica dei territori, e non più dall’alto, dalla rigida uniformità centralistica propria della storia italiana. L’autonomia può essere il punto di partenza per una Lombardia più efficiente e per un’Italia più moderna: i lombardi son concordi, ma manca la risposta dello Stato.

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