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Giorgio Pezzoni

Tassazione minima globale: un punto di partenza

La settimana scorsa, durante il G7, è stata accolta la proposta del Cancelliere dello Scacchiere

Rishi Sunak del Regno Unito, che detiene di turno la Presidenza del Summit, di istituire una

tassazione minima globale per i grandi gruppi aziendali.

La proposta prevede di istituire un’aliquota globale minima del 15%, con base imponibile

comune, per le aziende multinazionali con un margine di profitto (misura dei guadagni di una

società rispetto ai suoi ricavi dalle vendite), maggiore o uguale al 10%. E’ inoltre previsto che

verranno riallocati il 20% degli utili, delle aziende che superano tale soglia, nei paesi ove

prodotti.


Questa proposta ha l’intenzione di mettere fine , secondo il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti

Yellen, alla concorrenza sleale al ribasso di alcuni paesi, che permettono l’elusione ai grandi

gruppi, con l’obiettivo di ridistribuire equamente la ricchezza in particolare nei confronti della

classe media, martoriata ancor di più dalla crisi economica.

Questo progetto è stato accolto all’ unanimità, dai “Grandi Sette” della Terra, successivamente

verrà discusso con i ministri dell’economia dei paesi del G20.

Se i rappresentanti delle maggiori economie globali sono soddisfatti, decisamente meno lo sono i

paesi che proprio su questo hanno basato la propria crescita negli ultimi anni, alcuni dei quali

sono membri dell’Unione Europea come i Paesi Bassi, Irlanda e Lussemburgo che hanno

concluso accordi con i grandi gruppi, in tal senso.

E’ di certo un passo avanti, ma non basta, in quanto sono emerse alcune grosse criticità che

renderebbero inefficace questo ambizioso progetto.

La proposta, secondo il “Financial Times”, sarebbe insufficiente ad esempio per una nota

società (senza fare “nomi e cognomi”) che fa vendite per corrispondenza, la quale ha giovato

proprio della pandemia per incrementare i propri affari. Secondo i parametri proposti, infatti

questo colosso americano del web , resterebbe sotto la soglia di utili e ricavi che farebbero

scattare l’imposta.

La società in questione, infatti, continuerebbe a non pagare abbastanza nel nostro Paese e

negli altri paesi dove ha avuto cospicui profitti, continuando a versare le imposte dove ha la

sede fiscale, ovvero in Lussemburgo.

La soglia del 10% sul margine di profitto è troppo alta, come l’aliquota del 15% è troppo bassa

ed è allineata ai paesi con le imposte più basse (in Italia l’imposta sulle società, IRES è al 24%).

Quali potrebbero essere le soluzioni più rapide a questo problema?

La più semplice, più a dirsi che a farsi, è quella di imporre una base imponibile comune e

un’aliquota minima (ad esempio il 20%), all’interno dei paesi dell’Unione Europea, ma essendo

una modifica da approvare all’unanimità, credo che risulterebbe difficile trovare un punto

d’intesa.


Un’altra proposta potrebbe prevedere il rafforzamento della cosiddetta “Web-tax”, ovvero l’imposta che colpisce le transazioni digitali degli operatori: è pari al 3%, sui ricavi dell’anno precedente delle società di internet che vantano almeno 750 milioni di fatturato globale e incassi online in Italia di 5,5 milioni. Questa imposta è entrata in vigore lo scorso maggio, ma secondo il Ministro dell’Economia e Finanze Daniele Franco, porterà a ricavi ben al di sotto delle aspettative, pari a 1/3 delle stime, relativi ai fatturati del 2020.


La soluzione migliore sarebbe, a parer mio, riflettere sui motivi per cui l’Italia non risulta

attrattiva per le grandi società, oltre al fatto che le nostre aziende delocalizzano le proprie sedi

all’estero. La domanda che va posta è : non sarà per il fatto che ci sia un fisco eccessivo e

complicato, una burocrazia tortuosa e un’inadeguata tutela del credito dovuta alla lentezza dei

processi civili, che determina la non attrattività del sistema Italia nei confronti delle

multinazionali? Vale la pena di rifletterci...

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