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Lacrime di coccodrillo sul clima

Andrea Pellegrini

L’ultima edizione dell’annuale conferenza ONU sul clima è ormai conclusa tra polemiche e risultati non pienamente condivisi dai partecipanti. I lati negativi sollevati dai critici sono essenzialmente due. Esattamente come per le precedenti edizioni in Egitto e negli Emirati Arabi Uniti, anche la COP del 2024 è stata ospitata da un Paese, l'Azerbaijan, con forti interessi economici nel settore fossile. Le statistiche dell’Agenzia internazionale dell’energia per lo Stato caucasico riportano una produzione annuale di almeno 32 milioni di tonnellate di petrolio e 35 miliardi di metri cubi di gas metano. Nel 2022 ha esportato 26,6 milioni di tonnellate di prodotti petroliferi e 22,6 miliardi di metri cubi di gas metano. Proprio quest’ultimo idrocarburo è diventato fondamentale per l’Unione europea dopo l’abbandono del gas russo in risposta all’invasione dell’Ucraina. Il metano azero estratto nel Mar Caspio giunge in Europa tramite il mega-gasdotto Southern Gas Corridor (SGC). L’ultimo tratto di questa infrastruttura è il famoso TAP che sbuca sulle coste italiane in Puglia, fortemente osteggiato anni fa dai 5 Stelle e dai comitati locali ma rivelatosi molto importante per la nostra sicurezza energetica.


Secondo i critici, ospitare una conferenza sul clima in un Paese che fa guadagni miliardari vendendo combustibili fossili è surreale. È una posizione condivisibile ma negare questa possibilità sarebbe inopportuno. Non si può biasimare un Paese per aver portato le proprie risorse naturali sui mercati internazionali, come sottolineato dallo stesso presidente azero Aliyev. Stando alle informazioni condivise dall’organizzazione Kick Big Polluters Out, sono almeno 1773 i rappresentanti del settore fossile invitati a partecipare al summit climatico di Baku. Sicuramente meno rispetto ai 2456 presenti nel 2023 a Dubai ma è comunque un segnale estremamente negativo.


Nonostante la quasi totalità della comunità scientifica concordi sull’esistenza di un rapporto causa-effetto che lega le emissioni inquinanti delle grandi multinazionali del fossile e la crisi climatica, i governi forniscono ai lobbisti gli accrediti necessari per accedere ai lavori. Si rischia di compromettere il raggiungimento degli obiettivi climatici per la giusta transizione verde. È già successo l’anno scorso, quando l’OPEC ha ostacolato l’adozione della bozza che sanciva il graduale abbandono del fossile, facendo molta pressione sui delegati.


La scomoda presenza dei lobbisti del fossile dove “green” è la parola d’ordine risulta un’assurdità ma niente accade per caso. Sono lì per stringere accordi miliardari. Realizzare gli obiettivi climatici prevede l’installazione di un quantitativo mostruoso di potenza eolica e solare, anche superiore al fabbisogno istantaneo di un Paese. Tuttavia, queste fonti rinnovabili sono intermittenti e non programmabili, perché influenzate dal meteo e dal ciclo giorno/notte.


Siccome non esistono ancora tecnologie di accumulo su larga scala a prezzi sostenibili, chi può fornire un backup veloce per sopperire alla mancata produzione rinnovabile sono proprio i combustibili fossili. Si tratta di centrali a ciclo combinato di tipo peaker, ovviamente da sussidiare perché sarebbe antieconomicoper gli operatori farle lavorare in modo discontinuo. Per esempio, la Germania, lodata per la sua svolta green dall’attivismo climatico europeo, si prepara ad allacciare 25 GW di nuove centrali a gas entro il 2030, per compensare l'intermittenza delle rinnovabili. Questa stravagante accoppiata tra combustibili fossili e rinnovabili che tanto fa discutere oggi non esisterebbe se la precedente generazione di attivisti climatici non avesse ostacolato lo sviluppo nucleare degli anni Settanta e Ottanta.


A dispetto della propaganda faziosa e antiscientifica, il nucleare è una fonte sicura, non emette gas serra e l’impatto ambientale calcolato sull’intero ciclo di vita è bassissimo, paragonabile a quello delle rinnovabili, come affermano le meta-analisi dell’IPCC o dell’UNECE. Già questo lo rende migliore di ogni combustibile fossile, a prescindere dall’alto costo e dal tempo necessario per costruire un impianto nucleare moderno. Peraltro, il nucleare è meno conveniente se paragonato alle rinnovabili perché la politica ha sostenuto l’ideologia dei movimenti ecologisti, favorendo politiche energetiche incentrate unicamente sulle rinnovabili, che hanno ricevuto ingenti aiuti economici per decollare.


Al contrario, il nucleare è stato vessato da tasse inutili, ricevendo scarsissimi finanziamenti negli ultimi trent’anni. Solo di recente, per fortuna, il nucleare sta timidamente acquisendo maggiore importanza nelle discussioni climatiche, tant’è che gli attivisti pro-nucleare e le aziende del settore partecipano alle COP. Recuperare il tempo perso sarà molto difficile ma c’è la volontà di farlo, come dimostrano gli accordi presi a Dubai per triplicare la capacità nucleare oggi installata al 2050. Insomma, guardando il bicchiere mezzo vuoto, le conferenze ONU sul clima sembrano una perdita di tempo, con troppe contraddizioni senza mai giungere a una ferma risoluzione pienamente condivisa. Guardando il bicchiere mezzo pieno, invece, c’è dell’ottimismo sull’impegno che i governi mondiali assumeranno per contrastare l’emergenza climatica, magari scegliendo il buonsenso, non le dottrine green oppure i soldi dei petrolieri.

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